martedì 7 giugno 2011

Non tutto il Malick vien per nuocere


Ignoro se The Tree of Life del regista Terrence Malick, l'ultima Palma d'Oro al Festival del Cinema di Cannes, sia un capolavoro.

L'insigne e venerabile filosofo Emanuele Severino – dall'alto dei suoi millenari 80 e più anni – sul "Corriere della sera" lo annovera tra le "opere di genio" citando Leopardi e, in seguito, scomodando tragedia e miti antichi.
Detto da lui, ha un suo carisma e gnoseologico appeal.

Dello stesso avviso non saranno quegli spettatori che – neanche fossero misteriosi ladri di Nutella® scovata sotto i sedili – l'altra sera ho auscultato via via defilarsi quatti quatti dalla sala cinematografica a partire dalla prima mezzoretta mezzoretta di proiezione del film.

Sicuramente, Terrence Malick è un matto.
Un matto di quelli sopraffini, però; ai quali vale la pena prestare Ascolto Visione e Interiorità per arricchirsi di prospettive nuove e diverse, al di là di ogni categoria di comodo o etichetta. Figuriamoci poi se sono quelle dei premi, delle discettazioni filosofiche o di una crema spalmabile alla nocciola (e neppure di quelle più buone)...

Senonché, lo capisci che è matto – stupendamente matto... – quando senti dalle casse la voce off di una madre scossa da un tragico lutto che inizia a invocare pregante la divinità, affinché sia d'ausilio agli esseri umani; mentre sullo schermo procedono a rovesciarsi immagini stupefacenti di panorami interstellari, intervallate ad altre di paesaggi cosmici, multicolori lande incredibili ed esistenze polimorfe tolte dal mondo naturale e micro/macro-biologico, oltre a quello atmosferico: tra cascate d'acque e nuvole in viaggio, soli in galattico movimento e flemmatici pianeti osservanti, chiosati da informi spettri luminosi.
Come se, davvero, si volesse visualizzare la preghiera umana; i sommovimenti cioè dello spirito irrequieto, che viaggia lungo le molte dimensioni della realtà esistente per trovare quelle porte ultraterrene a cui arrivare al fine di ricevere asilo e scoprire risposte oppure domande semplicemente migliori in grado di schiudere alla luce di Sé o dell'altro da Sé.
Un di più, ossia, un Oltre più vasto e illuminante rispetto alle oscure limitatezze di quel che si è qui e ora.

Impossibile perciò – dicono gran parte dei critici vigenti, malnata razza di luridi pigroni – raccontare la trama di The Tree of Life.
Cazzata!, dico io: si può fare, o almeno tentare.
Difatti è la storia di un conflitto interiore: quello di un bambino texano dei retrivi anni '50, diviso tra un padre autoritario (perché frustrato) e una madre oltremodo amorevole ma al contempo incapace d'infondere tempra e vigore al figlio attraversato da fanciulle fragilità.

"Papà, mamma, voi due siete in lotta dentro di me e lo sarete sempre", questa la frase cardine del film, pronunciata fuori campo dal ragazzino che lo si vede altresì da adulto con il volto assorto di Sean Penn, trafitto di vissutissime rughe e ancora con la mente ingombrata dal pensiero del suo dissidio.
Ed eccolo così affrontarne, alla fine, le metaforiche rade deserte – novello Mosé inseguito dall'Egitto del suo lacerato passato –  sino ad approdare alle rive di un proprio intimo Mar Rosso, di là da cui c'è la personale Terra Promessa.
Perché quel mare è invero specchio d'acque che riflette appunto ciò che ognuno è, desidera e vuole, portando a galla quanto si nasconde nelle profondità. È flusso molteplice di correnti che racchiude tutte le scelte e possibilità che ciascun individuo è e soprattutto può essere oppure surfare, in raccordo ondoso e danzante con gli altri, il mondo e la vita.

Del resto, in ogni frame di questa "opera di genio" vi spira l'anima delle pagine sacre della Bibbia: però in quanto libro sapienziale e non astrattamente religioso; codice simbolico da interpretare e quindi sistema di connessione capace di comunicare in maniera immediata con la sfera spirituale – abissale/vertiginosa – dell'individuo. Battendo dunque in breccia rigidità e contingentamenti della ragione per affidarsi, invece, all'onda limpida dell'autenticità: che è scoperta stupita dell'emozione di ritrovarsi nella grazia di ciò che si è e non si è ancora mai stati, ma che in qualunque istante si può scegliere di voler essere. Abbracciandone il bagliore tenue che lo rivela nella tenebra del mero esistere.



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